Che i fattori economici non siano la variabile che tutto muove qui lo si è detto spesso. Anche nel mondo delle relazioni internazionali sono i fattori immateriali, come il prestigio, la paura, l’orgoglio nazionale o il modo di percepire la propria sicurezza che spingono i paesi ad allearsi o a combattersi. Questo non vuol dire che i fattori economici non abbiano alcuna funzione.
Come si scriveva qualche giorno fa, è proprio della scuola hamiltoniana pensare che i fattori economici, come l’apertura ai commerci internazionali e l’integrazione economica producano effetti politici, ed è chiaro anche che l’integrazione economica che gli Stati Unti hanno cercato con il resto del mondo dopo la fine delle guerre mondiali e di quella fredda aveva anche una chiave economia: “Dei vicini prosperi sono i migliori vicini” sosteneva Henry Dexter White funzionario del Tesoro nell’amministrazione Roosevelt.
Questo vuol dire che l’integrazione economica nella quale siamo vissuti sino ad oggi era anche uno strumento della politica estera americana che produceva vantaggi economici, stabilità e sicurezza. In altri termini, sino ad oggi siamo vissuti all’interno di una globalizzazione americana.
Ora noi in questi anni abbiamo imparato che i liberi commerci producono ricchezza, il che è vero (anche se i costi sociali nei paesi sviluppati sono stati e sono ancora enormi, ma di questo qui si è detto spesso). Si guardi, soprattutto la crescita che alcuni paesi come la Cina hanno registrato o si pensi al boom economico dei paesi usciti sconfitti dopo la guerra. Questo vuol dire che la globalizzazione a matrice americana che ha avvolto il mondo in ondate progressive ha prodotto ricchezza e creato una marea crescente che ha sollevato tutte le barche. Il punto è che la globalizzazione è un fenomeno reversibile.
Lo si è visto: Montesquieu aveva torto, il pugno delle autocrazie, o della politica in generale, può rompere i legami economici prodotti dai liberi commerci; i costi di trasporto, la crescita del costo del lavoro o problemi di sicurezza possono stravolgere le catene degli approviggionamenti globali o rompere le economie di scala che si sono create e livello planetario.
Il altri termini, il mondo globale non è una conquista duratura e infatti le tendenze verso la deglobalizzazione si stanno accentuando. Ora, la domanda è: in un mondo in cui la globalizzazione a matrice americana si sta riducendo, il che vuol dire che il mondo potrebbe strutturarsi in blocchi più o meno chiusi, gli altri poli dell’economia internazionale l’Europa e l’Asia hanno i numeri per poter continuare a crescere e a prosperare? In altri termini, se con il crescere della marea della globalizzazione americana i grandi politi dell’economia mondiale sono cresciuti, che cosa succederà ora che la marea potrebbe ritirarsi? Per dirla in maniera più netta, senza gli Stati Uniti, Cina, Europa e Giappone hanno gli strumenti per continuare a produrre ricchezza e benessere o si avvieranno verso un futuro più povero?