di Roberto Menotti
Le difficili scelte politiche per affrontare l’inflazione senza causare o aggravare una probabile recessione ricordano uno dei dilemmi di fondo dell’economia: la complessità. Esiste una vasta letteratura interdisciplinare che tenta di incorporare in modo più efficace il concetto di complessità nell’analisi economica, collegando teoria e pratica.
SULLE DECISIONI POLITICHE E LE ANALISI ECONOMICHE
La grande attenzione che i governi e le autorità monetarie dedicano in questi mesi all’inflazione ci ricorda un problema di fondo della politica economica: il dilemma di come prendere decisioni in un contesto di incertezza strutturale. In estrema sintesi, il problema in questo caso è che frenare l’inflazione può innescare una recessione più grave di quella che quasi certamente sta comunque per arrivare, con il rischio aggiuntivo di trovarsi nel peggiore dei mondi possibili, cioè in “stagflazione” (con la famigerata spirale tra salari nominali e prezzi al consumo, entrambi in crescita). Con diversi elementi di variabilità, il ragionamento di fondo vale attualmente sia per gli Stati Uniti, sia per la UE/eurozona, sia per tutti i Paesi OCSE, e forse per l’intera economia globale. Le banche centrali devono agire sulla leva dei tassi d’interesse senza avere certezza di quale sia la giusta via di mezzo che garantisca di contenere l’inflazione ma non danneggiare la crescita. E, come sempre, si tratta di modulare con la massima cura quella singola variabile – il tasso d’interesse appunto – sperando anzitutto di non fare danni. L’atteggiamento dei banchieri centrali, peraltro, è esattamente questo, anche a leggere le loro dichiarazioni ufficiali: sanno di avere tra le mani uno strumento imperfetto e di doverlo usare al meglio delle proprie conoscenze.
Naturalmente, sappiamo che esistono anche altri strumenti nelle mani della autorità governative, in particolare le politiche fiscali, ma per perseguire obiettivi specifici esse vanno coordinate con l’azione sui tassi d’interesse; il che amplia lo spettro degli strumenti ma complica ulteriormente il processo decisionale. Inoltre, il problema di fondo è il medesimo per le politiche fiscali, e riguarda la natura intrinseca delle attività economiche. Dietro il dilemma decisionale così impostato – tra inflazione e recessione, per semplificare molto – c’è infatti un difficile problema concettuale e teorico, su cui la disciplina economica si arrovella, giustamente, da lungo tempo. Il problema si chiama complessità.
Un potenziale vantaggio di chi non ha una formazione specifica in economia – come chi scrive – è la libertà di prendere spunto da varie discipline e da autori che solitamente vengono collocati in scuole di pensiero differenti, a volte perfino in campi avversi. Ed è quanto si tenterà di fare in questa nota, senza ovviamente alcuna ambizione di emettere verdetti.
In un’ottica politologica internazionalista, la questione che abbiamo di fronte riguarda il rapporto tra Stati e mercati, e l’intersezione ineludibile di fattori interni e internazionali (alcuni dei quali globali). Ne ho scritto in modo più articolato in un libro del 2021, e rimando a quel testo per qualche approfondimento.
Si possono intanto ripercorrere alcune tappe nello sviluppo del pensiero economico per capire meglio le difficoltà che incontrano oggi i responsabili delle decisioni politiche.
Hayek e la complessità (ante litteram), Keynes e la conoscenza limitata
Ben prima che lo studio approfondito dei sistemi complessi diventasse un filone consolidato, o quantomeno un approccio e una prospettiva ampiamente esplorati, fu soprattutto Friedrich Von Hayek a introdurre di fatto (pur usando un linguaggio diverso) gli elementi centrali della complessità nell’analisi economica. Autore tuttora molto controverso (sia tra gli economisti che tra i politologi) Hayek ha dedicato grande attenzione a come si formano e come agiscono i mercati in quanto ordini complessi, mediante la scoperta e la diffusione delle informazioni.
In sostanza, Hayek fece un’osservazione di fondo che cambia in parte le carte in tavola dell’analisi economica: più che uno stato di equilibrio raggiunto grazie alla razionalità di homo oeconomicus, l’azione individuale nell’ambito dei mercati tende a dar vita a un ordine spontaneo, dinamico ed evolutivo.
E’ importante subito notare che, in tale prospettiva, i processi incessanti di adattamento da parte di chi interagisce nel contesto dei mercati sono un fenomeno osservabile e osservato; dunque, il nodo posto da Hayek è empirico, prima che logico (o almeno non soltanto logico). Se constatiamo che un mercato concorrenziale si autoregola, quantomeno in certa misura e senza interventi autoritativi, dobbiamo porci il quesito di come faccia ad autoregolarsi e anche di come si muova da uno stato di equilibrio (breve, spesso brevissimo) a un altro, passando per stati di disequilibrio.
Dunque, si può fin qui prescindere dalla netta preferenza che Hayek ha sempre espresso per la libera concorrenza senza intervento dello Stato: il problema da lui posto è importante in ogni caso, e i filoni dominanti delle scienze economiche – prima e dopo di lui – non hanno del tutto risolto il puzzle del disequilibrio che comunque non corrisponde al puro disordine. Anzi, studi successivi hanno ampliato moltissimo lo spettro di fenomeni che corrispondono a quelle osservazioni fatte da Hayek, soprattutto nell’ambito delle teorie dei giochi e dell’economia “comportamentista”: tra gli altri, quelli di John von Neumann e Oskar Morgenstern, Richard Thaler e Cass Sunstein, Daniel Kahnemann e Amos Tversky, Herbert Simon. Da angolazioni diverse, e in modi non necessariamente coordinati, si è accumulata una mole di indizi, sia sperimentali sia teorici, compatibili con l’idea di fenomeni economici complessi, dinamici ed evolutivi. In un’ottica di conoscenze cumulative, potremmo forse essere di fronte a veri passi avanti, fornendo all’approccio di Hayek quello che lui ancora non aveva a disposizione durante la sua (lunga) attività accademica ed editoriale tra gli anni ’30 e ’70 del secolo scorso.
Il problema della presunta razionalità degli attori economici è stato variamente affrontato, e talvolta aggirato, da questi (e molti altri) studi; ma intanto si è meglio indagato in che senso mercati e società umane sono complessi, e perché è così difficile raggiungere quella sorta di sacro Graal che chiamiamo “equilibrio”. Il punto centrale è comunque che osserviamo spesso una forma di ordine, una cosiddetta “struttura emergente”, pur restando lontani da una condizione di equilibrio, il che spinge ad esplorare le forti analogie con altri campi di studio, soprattutto nel mondo organico e dunque in biologia.
Herbert Simon descrive ad esempio il mercato come “una rete di comunicazioni e transazioni”, suggerendo un legame molto interessante anche tra le teorie sui network e l’economia.
Dal canto suo, la teoria dei giochi assume l’egoismo assoluto dei giocatori (la ricerca del massimo payoff possibile) proprio per spiegare la possibilità della cooperazione anche nonostante la pressione strutturale del “gioco” verso le soluzioni subottimali. E numerose analisi empiriche, come quella di Robert Axelrod negli anni Ottanta (dal suggestivo titolo “The Evolution of Cooperation”) mostrano il profondo impatto della reiterazione e dell’apprendimento perfino in condizioni molto sfavorevoli, quando cioè i giocatori vengono attratti, dalla cosiddetta “struttura degli incentivi”, verso risultati subottimali.
Insomma, osservare un certo tasso di ordine spinge a chiedersi da dove venga, visto che sembra emergere anche senza alcun intervento “autoritativo” di allocazione (come è evidente sia nelle teorie dei network sia nelle teorie dei giochi) e in un contesto ad altissimo tasso di incertezza.
Il mercato non è affatto perfetto se lo concepiamo come una macchina che dovrebbe portare domanda e offerta immancabilmente verso l’equilibrio, ma è sorprendentemente efficiente se partiamo dal presupposto che nessuno lo coordina eppure riesce a produrre un certo tasso di ordine: è l’intuizione geniale della “mano invisibile”, che però dagli anni di Adam Smith è diventata un po’ meno misteriosa, essendo stati svelati i meccanismi che consentono di capire come si auto-organizzano gli organismi più semplici pur vivendo lungo l’orlo del caos.
Peraltro, proprio da quello che convenzionalmente si considera l’altro fronte del dibattito sulle politiche economiche rispetto a von Hayek, anche John Maynard Keynes ha dato un fondamentale contributo – spesso sottovalutato – all’introduzione di alcune forme di complessità nell’analisi economica. Ciò riguarda soprattutto la complessità cognitiva legata al concetto di incertezza. Come è stato ben sviscerato da Anna Carabelli in un volume presentato anche su Stroncature, Keynes è stato un epistemologo e un “filosofo della misura” che ha evidenziato il ruolo della conoscenza limitata nell’agire umano. La sua teoria della probabilità lo porta a privilegiare la “ragionevolezza” rispetto alla razionalità pura, e informa la sua visione dell’incertezza in economia – per cui Keynes parla, nella ricostruzione di Carabelli, di grandezze “complesse, multidimensionali e multiformi” come variabili fondamentali.
Il contributo di Keynes alla disciplina è stato però in certo modo compresso ed eccessivamente focalizzato (a posteriori, dai suoi seguaci) su alcuni aspetti di policy, comunque fondamentali ma che meglio si comprendono nel contesto dei suoi tempi e delle sfide specifiche che dovevano affrontare i policymaker nel secondo dopoguerra. Una diffusa banalizzazione del pensiero di Keynes ha forse privato il dibattito di altri spunti utilissimi.
Diversi filoni, apparentemente “eterodossi” rispetto al mainstream, sembrano quindi convergere su una prospettiva che ruota comunque attorno al concetto di sistemi complessi, con alti livelli di incertezza intrinseca, e lontani da uno stato di equilibrio. E’ una sorta di fiume sotterraneo che scorre al di sotto della superficie più visibile della disciplina economica.
Si può allora ipotizzare che due dei più influenti pensatori in campo economico abbiano in effetti socchiuso una porta che soltanto con notevole ritardo è stata poi del tutto aperta per esplorare un nuovo ambiente concettuale.
La disciplina economica sembra intanto aver sofferto di un atteggiamento troppo difensivo, perfino rispetto agli autori più coraggiosi e innovativi nel proprio stesso ambito, che ha finito per irrigidirne l’analisi. Ad esempio, anche una rassegna del pensiero economico estremamente utile, ampia e accessibile ai non specialisti come quella di Alessandro Roncaglia (“L’ età della disgregazione. Storia del pensiero economico contemporaneo”, Laterza, 2019) tende in alcuni passaggi a minimizzare il possibile contributo di altre discipline e di approcci alternativi.
Così, quando Roncaglia lamenta “l’individualismo metodologico” che sarebbe intrinseco nelle spiegazioni biologiche, sembra decisamente sottovalutare la vastissima letteratura (prodotta da biologi) sugli ecosistemi, i “fitness landscape”, la co-evoluzione, la selezione di specie, gli animali “eusociali”, fino alle teorie dei network applicate alla selezione naturale.
Dalle teorie alla pratica, e alle scelte di policy
Questa rassegna di storia del pensiero è qui stata appena tratteggiata, con scelte certamente arbitrarie, ma almeno una conclusione preliminare appare possibile: abbiamo alcune conoscenze molto utili sui mercati (e gli esseri umani che, in modo reticolare, li compongono) per meglio comprendere i dilemmi che le autorità devono gestire nell’affrontare l’inflazione cercando al contempo di non causare o aggravare una recessione. Sappiamo che le aspettative sono un fattore assolutamente cruciale per i fenomeni inflattivi (che di fatto proiettano un’ombra sul futuro, a sua volta in grado di aggravare il problema), e sappiamo che le autorità (a cominciare dalle banche centrali) devono tenere conto della reazione probabile dei mercati nel momento stesso in cui cercano di influenzarli in prima battuta (devono cioè proiettare la loro azione in un futuro incerto). Il gioco sottile alla ricerca di un punto di equilibrio, terribilmente instabile ed elusivo, tra inflazione e recessione è legato alla struttura stessa dell’economia: manca un rapporto causa-effetto che sia diretto e affidabile.
Proviamo ora a passare dalla teoria alla pratica, con un salto quasi spericolato. Un bravo analista finanziario, Marco Annunziata, ha così riassunto la difficile situazione dell’economia globale e i relativi dilemmi per i policymaker:
“I suspect the main reason is that after several years of massive and pervasive government interventions, the economy still struggles to regain a degree of normalcy.”
Questa affermazione contiene in effetti due giudizi: uno sull’eccessivo intervento governativo degli anni scorsi (che sarebbe certamente stato condiviso da Hayek), e uno assai più generale sulla mancata “normalità” del sistema economico globale. Dal secondo punto di vista, c’è in sostanza un richiamo alla “fisiologia” economica; restando all’analogia con la medicina, per identificare una condizione patologica si deve infatti prima aver definito con precisione la fisiologia (lo stato “normale” del sistema stesso). Altrimenti manca un criterio di comparazione, e quindi di valutazione. E torniamo così al presunto stato di equilibrio o vicino all’equilibrio che i mercati, o eventualmente una qualche combinazione di Stati e mercati, dovrebbero garantire.
Nel caso specifico dei trend rilevati in questo 2022, è stato da più parti ricordato, giustamente, che in pratica vi sono tipi diversi inflazione, e non tutti sono “da domanda”. Ogni tipo andrebbe gestito in modo parzialmente diverso. Il fatto però è che c’è solo un tipo di equilibrio, nel senso che se c’è inflazione significa che domanda e offerta sono disallineate, per qualche ragione. Mentre insomma il concetto di equilibrio è in bianco e nero, cioè un assetto che si osserva o non si osserva in un dato momento, la realtà economica è fatta di sfumature che richiedono valutazioni qualitative e di dinamiche che vengono interpretate generando a loro volta aspettative e altre dinamiche.
Annunziata nota anche, nel valutare la probabilità di una recessione negli USA, che “The issue is that major economic indicators point in very different directions”. Gli indicatori appaiono poco affidabili, si può a questo punto ipotizzare, non per una scarsa competenza di chi li ha sviluppati, ma invece per la natura stessa delle dinamiche economiche – lontane dall’equilibrio e a carattere evolutivo. Quegli specifici indicatori, come strumenti previsionali, saranno tanto validi quanto la teoria generale su cui poggiano. E’ inevitabile che gli analisti (e i decisori politici) debbano usare gli strumenti che hanno a disposizione, per quanto imperfetti o imprecisi, ma ciò non implica che si debba rimuovere o ignorare il problema teorico – che poi diventa assai pratico, visto che da quegli strumenti dipende il benessere di molte persone.
Dalle teorie economiche alla pratica delle decisioni politiche, insomma, il passo è breve. Lo si è visto in modo drammatico già in occasione della crisi finanziaria (poi divenuta anche crisi dei debiti sovrani) innescata negli Stati Uniti nel 2008: in quel caso, un terremoto globale scaturì proprio dal settore che era e resta più monitorato – quello finanziario – con una gigantesca massa di dati in tempo reale che vengono incessantemente studiati e utilizzati dagli algoritmi più sofisticati. Come noto, ci furono senza dubbio anche gravi responsabilità di alcuni attori privati e delle autorità regolatorie; ma resta il fatto della fortissima sensibilità dell’intero sistema a variazioni “locali” (l’effetto contagio, in altre parole), che è una fondamentale caratteristica della complessità. Una caratteristica che è stata sottovalutata, e forse deliberatamente ignorata, cercando quasi di adattare la realtà ai modelli invece dell’inverso.
E’ opportuno ricordare sempre che i decisori politici devono agire in un contesto reale che è sistematicamente complesso e caotico, non in un mondo dei sogni fatto di previsioni affidabili, e neppure di precisi scenari tra loro alternativi. Le decisioni vanno prese comunque, sia chiaro, ma la realtà non consente di farlo come si vorrebbe – e come spesso viene erroneamente comunicato all’opinione pubblica.