I passi in avanti che sta compiendo il processo di integrazione europea sono straordinari e non possono che entusiasmare quanti in quel progetto hanno sempre creduto. Certo, è anche vero che questo straordinario balzo in avanti sta avvenendo sotto la spinta violenta delle crisi prodotta dal Covid-19, dimostrando la validità dell’assunto di Schuman e cioè che l’Europa avanza attraverso la risoluzione di crisi. Il che è abbastanza normale, anzi si potrebbe dire “naturale” e anche, sotto altri punti di vista, politicamente opportuno.
Quanto al “naturale” scrive Roberto Menotti in Mondo Caos (il libro di cui discuteremo oggi pomeriggio insieme a Marta Dassù e Vittorio Emanuele Parsi): “la selezione ha insegnato agi esseri umani a concentrarsi sul breve termine e non a preoccuparsi sul futuro lontano, per la semplice ragione che chi riflette soltanto sul futuro perisce nel presente”.
Quanto al politicamente opportuno, si riferisce al fatto che qualunque piano di integrazione rigido calato dall’altro verrebbe vissuto dalle coscienze europee, lavorate per secoli dall’idea di nazione, come una imposizione da parte dello stato più zelante nella sua attuazione. Del resto è questa la storia dell’Europa, qualsiasi progetto egemonico ha generato una reazione (e una coalizione) uguale e contraria.
Dunque tutto bene così? Non proprio. Proprio il grande attivismo della mano visibile della cosa pubblica (a più livelli) induce a una riflessione. Se ci si guarda indietro si può notare che nei periodi in cui più forte è stato l’attivismo statale a sostegno dell’economia, minore è stato il grado di apertura delle economie. E quando negli anni Settanta del secolo scorso si è dato avvio a quel processo di abbattimento delle barriere tariffarie e doganali, che ha creato una delle condizioni essenziali, insieme a quelle tecnologiche, per la globalizzazione economica degli anni Novanta, di pari passo si è avviato un altro processo che è stato quello del ritiro della mano pubblica dalla sfera economica, in nome dell’idea dello Stato minimo. Per dirla diversamente, a chi scrive non vengono in mente casi di grande interventismo statale che sono andati di pari passo con una grande apertura ai commerci e agli investimenti internazionali.
Il che per certi versi è comprensibile: se una comunità decide di tassarsi o di indebitarsi per usare quei soldi nell’ammodernamento e rilancio economico di una intera nazione o area, è normale che quella stessa comunità non voglia che altri paesi, che non ci hanno messo una lira, ne approfittino. Il che implica che l’idea di bloccare le delocalizzazioni di quelle aziende che hanno ricevuto aiuti, o l’idea di imporre un ritorno in patria a chi vuole giovarsi di aiuti statali, o anche l’idea di innalzare nuovamente barriere tariffarie e doganali per riservare alle sole imprese nazionali (o europee) il mercato interno dei consumi sostenuto dalla mano pubblica, diventa una carta facilmente spendibile e dall’alto rendimento elettorale.
Il rischio dunque qual è? È che questo nuovo attivismo della mano visibile in economia, che oggi è salutato con grande giubilo, possa essere l’inizio di un nuovo processo di nazionalismo economico che darebbe un ulteriore colpo a quell’ordine liberal-democratico internazionale che sulla apertura economica ha costruito straordinarie promesse di benessere e sviluppo, e le ha mantenute. Il che potrebbe condurre alla frantumazione dell’ordine interrelato globale e il ritorno di blocchi economici e politici chiusi, di logiche a somma zero, di politiche di potenza e sogni imperiali. Questo significherebbe il ritorno di tutti gli spettri del passato che forse ci si era illusi di aver scacciato per sempre.
Nunziante Mastrolia