Si sta diffondendo una strana vulgata, fatta di un impasto di più cose. La prima è che la globalizzazione stia per finire. La secondo è che tanta parte delle responsabilità di un tale evento siano da attribuirsi o a Trump, che sembra non curarsi delle istituzioni internazionali che sono i perni politici su cui si è retta la globalizzazione economia, o al Coronavirus che ha bloccato gli scambi.
È evidente che Trump ha le sue colpe, la prima della quali è quella di non governare un ordine internazionale che gli Stati Uniti hanno creato, di non ragionare in un’ottica sistemica, post-westfaliana se si vuole, ma in termini di una visione molto miope di quello che sembra l’interesse nazionale. Per fare un esempio. Gli Stati Uniti importano solo una piccola parte di petrolio e gas dal Medio Oriente (solo il 6% dall’Arabia Saudita, per dire). Mentre il grosso viene dallo stesso Nord America (Canada, 40%) o dall’America Latina. Eppure la dottrina Carter dice una cosa molto precisa e cioè che qualsiasi attacco all’area del Golfo sarebbe stato considerato un attacco contro gli interessi americani; in quel caso Washington avrebbe fatto ricorso all’uso della forza. Dunque qual è l’interesse nazionale americano in Medio Oriente se gli Stati Uniti non hanno bisogno del petrolio che si estrae nell’area?
La risposta la si ha se si considera che in massima parte il petrolio del Golfo serve ad alimentare la crescita europea e la crescita del Giappone prima e della Cina dopo, vale a dire gli altri due grandi perni dell’economia internazionale, in ottemperanza ad un principio che Harry Dexter White aveva espresso in maniera chiara, i migliori vicini sono dei vicini prosperi. Questo significa che le amministrazioni americane che si sono succedute nel tempo, hanno sempre ragionato in un’ottica sistemica, fornendo cioè quei beni di pubblica utilità internazionale (il petrolio, per rimanere all’esempio di prima) che erano necessari a tenere in piedi l’ordine internazionale, facendo cioè in modo che tutte le grandi potenze potessero trarne vantaggio.
Nel momento in cui Trump cerca di accaparrarsi il vaccino, per garantirlo in primo luogo ai cittadini americani, si mette al di fuori di quella prospettiva sistemica e di fatto rinuncia a governare l’ordine internazionale e ritorna ad una logica a somma zero delle relazioni economiche e politiche a livello internazionale.
Trump dunque ha le sue colpe, e potrebbe anche aver accelerato il processo di dismissione del vecchio ordine internazionale (il che vale anche per il Coronavirus), tuttavia ci potrebbe essere anche un altro piano di lettura, anzi due.
Il primo, le istituzioni di Bretton Woods sono state pensate per un mondo (politico ed economico) di tipo fordista e dominato dagli attori statuali. Ma quel mondo in massima parte non esiste più, sia perchè gli Stati faticano a mantenere il ruolo cardinale nelle relazioni internazionali che avevano un tempo, sia perchè la struttura dell’economia internazionale è cambiata, visto che non si scambia più, per dirla con Ricardo, il vino portoghese contro la lana inglese, ma fasi della produzione, che si muovono lungo una catena di assemblaggio globale che prescinde dai confini nazionali e si snoda soltanto seguendo la linea dei vantaggi comparati di pezzi di territorio (non di intere nazioni).
Il secondo, è probabile che non stiamo assistendo alla fine della globalizzazione, ma alla fine di una particolare forma di globalizzazione, vale a dire quella fordista, che è consistita nella esplosione della catena di montaggio che prima era collocata all’interno di un unico stabilimento industriale, e il suo disseminarsi a livello planetario. Questo significa che sino ad ora siamo comunque vissuti all’interno di uno stesso paradigma, di cui la globalizzazione che abbiamo imparato a conoscere a partire dagli anni Novanta, faceva parte.
Oggi invece potremmo essere di fronte ad un salto di paradigma, dove forse non ha senso spostare le merci, ma i progetti per la produzione di quelle merci (prodotte in loco da macchine e non da braccia umane a basso costo) devono continuare a muoversi liberalmente; dove forse non ha senso che le persone si spostino, ma ha senso che imprese possano assumere a distanza menti brillanti ovunque esse si trovino (si veda a tale proposito Richard Baldwin, La rivoluzione globotica). Se dovesse essere così, allora non avrebbe senso continuare a combattere le barriere tariffarie sulle merci, ma avrebbe più senso sorvegliare che non sorgano barriere digitali che impediscano la libera circolazione delle idee e delle competenze a livello digitale. Per dirla diversamente, se il nuovo motore dell’economia globale è di natura digitale allora si deve garantire la libera circolazione di idee, persone, capitali a livello digitale.
Se così stanno le cose, allora di possono fare una serie di riflessioni conclusive. La prima, le grandi istituzioni internazionali, una delle maggiori differenze della Pax Americana rispetto a quella Britannica, sono state pensate per un mondo che non c’è più, dove gli attori del sistema agivano su base statale (sia a livello economico che politico). La seconda, la struttura dell’economia globale sta mutando e potrebbero emergere forme nuove ti protezionismo e di mercantilismo ma a livello digitale.
Questo vuol dire che sta emergendo una forma nuova di globalizzazione, ma nel frattempo abbiamo istituzioni vecchie che non sembrano in grado di poter garantire anche nel mondo nuovo quei beni di pubblica utilità internazionale (apertura dei mercati, cooperazione globale, gestione delle dispute etc) che hanno garantito nel mondo vecchio.
Non ce nulla di ineluttabile nè di bizzarro, l’intelligenza e la creatività umana producono il cambiamento che genera trasformazioni a livello globale, di qui la necessità di istituzioni che governino questo cambiamento riducendo per quanto possibile le esternalità negative e imponendo una serie di regole del gioco così da rendere il nuovo sistema economico globale mutualmente vantaggioso per tutti. Si tratta di ammodernare le vecchi istituzioni ai tempi nuovi, non è impossibile farlo.